Una delle nostre corsiste, Claudia Fiorotto, ha redatto una cronaca, un vero e proprio racconto del weekend che la Scuola di scrittura Virginia Woolf ha trascorso a Torreglia in luglio a conclusione dell’anno di corso e in vista dell’incontro con gli editori previsto a settembre.
Ringraziamo Claudia per aver condiviso le sue parole e i suoi pensieri con noi. Buona lettura!
di Claudia Fiorotto
Una curva a gomito e poi… giù per la via che costeggia il cimitero e la chiesa, con la sua scalinata che pare sospesa in un altro tempo! Noi con le voci schiette, accaldate ed euforiche ci chiediamo se la destinazione è questa visto che il navigatore è ammutolito di colpo senza preavviso. Procediamo tra la vegetazione che crea archi di sospensione temporale in un sabato mattina torrido e colmo di aspettative.
Un cancello in ferro o ligneo, ora non ricordo, è aperto su una corte di ghiaia che immette alla dimora “tauriliense”. I nostri abbracci, i saluti, le chiacchiere, lo spostar bagagli, macchine e provviste sono il preludio ad una mini avventura letteraria che ci prenderà per mano, tutte dalla prima all’ultima.
La casa signorile, con una vista che imbavaglia le parole si erge con la sua facciata ampia e pulita e osserva il via vai che anima la terrazza. Esclamazioni di curiosa meraviglia, richiami ad un tempo in cui la villeggiatura estiva, riportava parenti ed amici a riunirsi in grembo a quella vecchia signora che, placida e accogliente li attendeva.
Siamo sulla scena di un film, penso d’un tratto, mentre mi guardo intorno, entro nel salone arredato di specchi, divani, poltrone, una tavolata che può accogliere più di venti commensali, sedie di varie fogge ed alcuni oggetti d’arte oltre che a quadri, lampade e suppellettili d’epoca.
La scala che conduce al primo piano è in pietra e un parapetto, che è un groviglio di fiori e foglie in ferro battuto, sormontato da un corrimano ligneo, ne delimita il confine, oltre il quale, lo spazio un tempo più curato dell’androne si offre allo sguardo, ricolmo di oggetti accatastati alla meglio, celati da teli grezzi che la padrona di casa ha fatto planare con sollecitudine. Un quotidianità vivace si intravede in quelle ceste in cui figli, nipoti e parenti hanno depositato spicchi di esistenze. Due sedie tappezzate d’azzurro sono addossate alla parete, in quel passaggio che immette al corridoio delle camere. Tra loro un tavolino da boudoir sul quale poggia uno sciatore d’altri tempi in miniatura: ginocchia piegate e busto proteso a valle, con un gesto delle braccia che vira, un fendere dell’aria immaginario mentre la sciarpa, avvolta al collo, guizza bizzarra all’indietro.
Mi fermo, ho come una visione di pomeriggi antichi in cui si risaliva per la siesta, vedo ombre vestite di lungo far scivolare le toilette sul legno scuro delle tavole, affacciarsi alla prima, alla seconda e poi alla terza porta sulla sinistra del camminamento, o volgere lo sguardo alla soglia della stanza padronale sul fondo. Sento un abbraccio, un tepore che arriva dalla memoria della vita del luogo, si spalma con un tocco delicato e morbido sulla mia pelle. Entro nella scena, sono un personaggio che si muove disinvolto e respira avidamente ad ogni passo. Letto, cassettone, toilette, comodino e armadio parlano un italiano ossequioso di inizio Ottocento, ma mi accosto loro con garbo, sento la peculiarità delle loro essenze, l’equilibrio e la regolarità delle forme, il richiamo vivace ed armonico alla vita che assorbono ogniqualvolta gli scuri si aprono sul paesaggio circostante.
Chi si è specchiato, ha guardato la trama della propria vita percorrere i tratti del volto e uscire repentina dalle imposte appena socchiuse? Il vociare e lo stupore che in sottofondo mi accompagnano si stemperano lievi.
Siamo qui tra il fiorame in boccio delle nostre storie a cercare nuova ispirazione tra un ballo che apre una seducente serata al Cremlino, una Violette che furbescamente sogna un’avventura con un amante ideale rincorsa dal fidato Rufus, una Cloe che inciampando maldestramente perde il tacco delle sue preziose Falconer e decide di cambiare definitivamente rotta, una Amila che vuole capire fino in fondo le cose, la storia e le nefandezze irriverenti della vita, Nora che non sa quel che succede nella testa di chi si è perso di vista e continua a cercare, illuminata dal ricordo del sorriso, un tempo pulito, di sua madre; due fratelli che si abbracciano guardando il vuoto cercando di credere di non essere soli; una donna che rincorre oltre frontiera l’amore della vita, una bimba muta che ricama le parole che non può proferire, la metamorfosi di Elena che rivive tante vite quante quelle che le affibbiano i colleghi e poi Mara, che cerca il suo posto nel mondo, animata dal caparbio desiderio di dare una svolta alla propria esistenza, fatta di piccoli e profondi soprusi, donna bambina, vuol plasmare il suo essere attingendo oltre che alle fantasticherie, al legame con la terra che la richiama; mentre Luisa scalpita, vorrebbe un amore coinvolgente, audace che la consolidi e la rigeneri per far fronte al vuoto di sé e allo smarrimento che prova di fronte ai figli…
Ecco germogliare le voci che si stagliano nette e veraci al cospetto di novelle autrici e autori in pieno exploit creativo. Personaggi incedono fieri, imprimono il ritmo alle storie e ispirano testi la cui natura si armonizza alle energie delle singole vite, mentre l’ascolto empatico e critico del laboratorio svela intrecci rischiosi, incipit azzeccati, conflitti da perfezionare, dialoghi spenti o inverosimili, scene curate nei dettagli o troppo ricche da sforbiciare. I nostri sguardi si incrociano, scivolano e poi si fissano sulle parole mature che con coraggio svelano il frutto delle nostre radici.
Non c’è un filo d’aria, nonostante le porte finestre spalancate sull’ampia terrazza pavimentata. La luce acceca e il frinire delle cicale stordisce i pensieri. Vassoi ricolmi di frutta giungono in soccorso per il nostro refrigerio. Ci allontaniamo temporaneamente dalle pagine entrando ognuno nel proprio spazio di pace e immobilità. Gustiamo quel che ci accade.
C’è un clima di sospensione che ci permea e nell’attesa sondiamo intimamente le sfumature dei nostri sorrisi. Qualcuno si sente in obbligo di spezzare il sottofondo, quel cicaleccio perpetuo e inesorabile che non ha fine. Ci spostiamo in una piccola rotonda nel verde adiacente alla villa. L’aria è ancora immobile ma la nostra esuberanza si libera. Osservo quella muta impercettibile che si sta facendo strada. Lasciamo cadere a terra ogni maschera e usciamo allo scoperto: movimenti fluidi, sguardi curiosi, parole che attingono con passo felpato o ruvida naturalezza al nostro mondo immaginario. Si è ristabilito il contatto e a turno ci passiamo il testimone rafforzando così questo nuovo sodalizio.
Nelle retrovie Marco si sbizzarrisce in cucina, con una modestia e un rigore che mi sorprendono imbastisce un pranzo che pare un banchetto. La squisitezza e l’armonia cromatica dei suoi piatti ci prendono al lazo, qualche esitazione su ingredienti che alcuni non conoscono…ma annegano nel vino che ha colmato più volte i nostri calici. Se nel gustare le pietanze la sala era intrisa di quel silenzio che avvolge i ricercatori quando devono dar nome alle loro scoperte, una volta spazzolati i piatti, a turno, ci siamo lasciati andare al flusso di libere associazioni creando un clima di brillante euforia. Le voci femminili sovrastavano i due unici maschi a tavola che, pensosi, si ritiravano in assorto silenzio uno, in perplessa curiosità l’altro, mantenendo la loro proverbiale compostezza.
Le scene sfumano leggermente e i due giorni si sovrappongono in un continuum di sensazioni che, oltre alle parole e alle argomentazioni, sono cinte dai colori vivi e intensi della natura, i suoi rumori e dalla luce che calibrava come un catalizzatore il nostro fermento, le nostre perplessità, le domande e quel desiderio intimo e struggente di trovare e mantenere salda la nostra rotta.

Quando in serata abbiamo deciso, guardando il cielo, che si poteva trasferire la grande tavola all’esterno, la collaborazione è stata unanime e in men che non si dica abbiamo apparecchiato con tanto di duplice tovaglia in lino ricamata, nelle nuances del verde acqua e rosa pallido. A capo tavola, Laura la nostra libraia prestigiatrice da un lato e Riccardo dall’altro, ce la siamo goduta sulla scia di schermaglie ed intrecci che all’imbrunire procedevano a briglia sciolta con misurato sarcasmo, una cena di simpatiche rivelazioni che la prima frescura della sera incoraggiava. Non più solo storie da scrivere o plasmare anche le nostre personali esistenze vengono ora impercettibilmente contagiate. Quale cornice migliore: una terrazza sontuosa anche se leggermente in decadenza, balaustre a mezza altezza sormontate da cesti floreali in pietra e fra loro, a ingentilire la ringhiera, vasi in cotto con fiori bianchi e cremisi oltre i quali i pendii dei vigneti e il panorama della piana verdeggiante di Torreglia si offrono al nostro sguardo.
Man mano che la luce della sera viene risucchiata, i nostri personali confini si ridimensionano e, come tante piccole lucciole, planiamo preservando ognuno il proprio bagliore.
Qualche cambio di stanza rispetto a quanto prospettato all’inizio ha movimentato il dopo cena. Si presagiva un temporale, ma infine solo guizzi di lampi e forte vento ci hanno accompagnato nel primo sonno. Ho faticato un po’ ad addormentarmi, la testa pulsava e quanto condiviso nella giornata faceva eco al richiamo dei primi sogni. Il canto dei grilli si faceva sentire a intermittenza e come una leggera nenia mi rassicurava. Mi sono persa nel dormiveglia tra le ombre, i riflessi degli specchi e il leggero brusio proveniente da qualche altra stanza. Una luce era stata lasciata accesa nel vano scala se qualcuno, nella notte, avesse avuto la necessità di servirsi del bagno. Quella lama di chiarore attraversava il corridoio e voltandomi nel letto percepivo il bagliore di quell’ intrusa. Dopo un tempo che non so definire mi sono fatta scivolare giù dal letto e con passo pigro mi sono spinta fuori. Erano tre o quattro le camere di lato lungo il camminamento ? Non lo ricordo con precisione. C’era un respiro profondo e cadenzato dietro alla prima porta mentre quelle in successione non lasciavano trapelare nulla, una quiete e un abbandono filtravano dagli stipiti mentre io procedevo guardinga in cerca dell’interruttore. Spenta la luce i miei occhi hanno cercato di calibrare l’intensità delle tenebre. Non era un buio assoluto ed è bastato poco per ridefinire il percorso a ritroso evitando cassapanche e sedie addossate alle pareti.
Il mio sonno è ripreso indolente al rintocco delle tre e trenta. E’ l’ora delle comunicazioni medianiche, mi son detta, quella in cui se ci si sveglia e se ne sente la necessità si può scrivere e la mano vergherà parole che possono stupire gli increduli… Ma ho lasciato vagare il pensiero sino a perdermi definitivamente nella calma dei sogni.
Ci eravamo dati appuntamento per la ripresa lavori l’indomani alle dieci. Già alle otto il via vai per i bagni era palpabile. Ho poltrito fino all’ultimo.
Ritrovarsi appena svegli senza l’ansia di dover sembrare quello che non sei e incrociare
altri sguardi che ti salutano gioiosi e fiduciosi è un bel incipit di giornata. Personalmente il mattino ho un andamento lento e ho apprezzato le voci pacate, i sorrisi placidi o ancora un po’ annebbiati e la composta vivacità di chi si è comunque alzato all’alba o ha fatto da custode al nostro sonno. Volevo rintanarmi da qualche parte, dedicarmi alla scrittura della mia storia, tralasciando il lavoro di gruppo in calendario. Il mio portatile d’annata aveva definitivamente deciso di interrompere il suo servizio e il nostro sodalizio di scrittura per cui, armata nuovamente di carta e penna, dopo un po’ mi sono dileguata tra le viti. Le voci fresche e marcate delle docenti mescolate a quelle delle compagne si percepivano con chiara nitidezza: botte, risposte, pause, evoluzioni e rivalutazioni dei brani proposti per la riscrittura, una centrifuga di idee, suggerimenti e accorgimenti per planare alla versione ottimale, la forza del gruppo!
Ma la cosa stupefacente è arrivata dopo.
Avete dubbi sulla voce dei vostri personaggi? Volete veramente scoprire di che pasta son fatti? Cosa vogliono? Perché si ostinano a tirarvi per il bavero e farvi andare in una direzione piuttosto che in un’altra? Cosa pensano veramente? Lo sapete?
Tendenzialmente ognuno di noi aveva la propria idea circa il/i personaggio/i della storia che stava narrando, ma qualche sfumatura, qualche dubbio era naturale sorgesse. Così Laura L. ci ha proposto il lavoro che io definisco “la sedia dell’anima”. A turno abbiamo fatto parlare i personaggi stimolati da Laura, la nostra docente poetessa che con ritmo fermo, ma al contempo delicato e attento ha interrogato l’anima di Violette e di sua madre, di Norina e Nevia, di Alena ed Edoardo, dei colleghi di Elena , di Angela Cecilia Bernardini, la badessa, di Bianca Augusta e altri ancora.
Entrare nella pelle e nelle viscere dei propri personaggi è tutt’altro che un gioco. E’ andare all’origine, scavare in quel profondo sé che porta a diseppellire le radici della propria motivazione al narrare. Ci vuole coraggio o l’incoscienza dei puri di cuore che non indietreggiano di fronte all’ignoto o al semplice svelamento delle parti occulte di sé.
E così è stato per coloro che si sono messi alla prova, hanno parlato a più voci, tante quante quelle delle verità nascoste che sono emerse dalle singole storie. Ci siamo vicendevolmente ascoltate e le rivelazioni ci hanno dato materiale su cui concentrare o sviluppare il nostro lavoro di scrittura. Ancora una volta una meraviglia!
Questo è stato per me il dono più grande che ho riposto con attenzione e cura nel bagaglio preparato per il rientro a casa.