Lu & G.L.I.
di Barbara Buoso
(alle mie nipoti)
Una soluzione c’è sempre, magari pressurizzata, ma c’è sempre. “Beclometasone dipropionato”.
Lucrezia lo dice a sua nipote che le sta telefonando dal bagno, di nascosto: “se non fai i compiti arriva Beclometasone dipropionato e ti porta via la tua amichetta”.
Minacciarla di portarle via i giochi la fa ridere.
“Tanto me ne compri di nuovi, zia”.
Allora a Lucrezia non resta che profilare il reato di sequestro di persona a carico del sig. Beclometasone dipropionato che – pensandoci bene – potrebbe essere anche un nobile. Senza casata però.
Sua nipote Asia ride di lei e della sua soluzione pressurizzata. Le dice che Mosè le ruba i compiti. Sul furto di compiti, tenendo presente che fa la prima elementare, si potrebbe anche parlare a lungo, ma che, a compiere tali nefandezze, sia un bambino di nome Mosè la indigna.
Raccontami ancora.
Asia adora sua zia, sorella di suo padre, più grande di lui di tre anni, anche se non la vede tanto spesso perché Lucrezia sta per morire di cancro e ha deciso di togliere alla nipote – e a qualunque altra persona che la conosceva prima della malattia – la sua presenza fisica. Non ha tolto la voce, quella no, a condizioni sia lei a chiamare le persone che fanno parte della sua vita. Decide lei quando, come e perché. Ha deciso di selezionare rari, preziosi – intimi – momenti di serenità da dedicare a parenti, pochi, e amici.
Lucrezia ama Asia e “viceserva” ha insegnato a dire alla nipote. Si intendono a meraviglia, forse perché sono destinate alle fanciullezze, entrambe. La nonna paterna, le dice la piccola, ha i capelli viola e – giura e spergiura la piccola “non è una fata” – non l’ha mai vista fare magie. Vuole che sua zia disegni una striscia che ha come protagonista sua nonna che non fa magie. Lucrezia disegna per vivere, forse per questo sua nipote non l’ha mai presa sul serio vedendola, quando andava trovarla, colori di ogni tipo sparsi per casa, fogli punzonati, blocchi.
Le dice che a nessuno interesserebbe leggere una storia in cui non succedono magie. Le domanda allora di disegnarle il cancro, a lei ha detto le cose come stanno fin da subito, ai bambini non si deve nascondere la verità perché tanto loro sanno già tutto. Prende un A4 e tratteggia sul foglio dei filamenti bianchi che si propagano come stelle cadenti al contrario, come certi voli di aerei che poi rimane la scia per ore in cielo e poi, più distante è l’aereo più si creano queste rimanenze di nuvole. La nefrectomia sinistra causata dal carcinoma renale a cellule chiare degenerato poi in metastasi polmonari e linfonodali paratracheali ora è domata dai bordi del di un foglio A4. Lucrezia dice a sua nipote che la nonna ha i capelli viola perché usa la lacca “Testa nera” che, se è usata su una testa bianca, dà come risultato il viola. La minaccia di usare la lacca contro i suoi ricci, ride dicendole che i suoi capelli stanno fermi solo con le forcine che le mette la sua mamy. E che no, non li vuole i capelli viola perché li ha già rossi.
Minaccia di spruzzarle contro la lacca: lo ha visto fare in televisione.
Lucrezia le dice che deve aspettare un po’ ancora. Quando okkuperà una scuola allora potrà usare questi mezzucci, contro qualunque divisa, compresa quella dei bidelli! Perché nella scuola privata, frequentata da sua nipote, anche i bidelli hanno la divisa. Le spiega che è solo questione di tempo.
Che la soluzione, seppur pressurizzata, c’è sempre.
A sei anni la bomboletta te la compra mamy per colorare il presepe.
A quindici la bomboletta ti serve per scrivere ti amo sul muro della scuola.
A venti la bomboletta ti serve per scolpirti i capelli.
A trenta la bomboletta ti serve per curarti la bronchite.
Dai quaranta in su per avere la testa in ordine…
Lucrezia un’okkupazione l’aveva fatta, aveva diciotto anni. Asia ha una soluzione per non farsi più rubare i compiti da Mosè: non andare più a scuola.
Chiede a sua zia di approvargliela, possibilmente all’unanimità.
Domani non vai a scuola, Asia.
E’ domenica, pensa, rammaricandosi della mansuetudine della concessione. Non si parlano lei e Filippo, il padre di Asia. Sono stati fratelli da piccoli, finché c’era da far volare un’altalena più in alto, nascondere una malefatta, stringere un patto di sangue che avrebbe salvato l’umanità, i fratelli ne stringono sempre di patti così: tanto il sangue non costa molto se lo hai nelle vene. Avevano giocato tutti i giochi possibili tra fratelli, poi, crescendo, si erano dimenticati – entrambi – quanto si erano voluti bene. Non si erano incrinati i rapporti a causa di chissà quale screzio, semplicemente entrambi – morti i genitori e abbandonati gli obblighi legati alla gestione ordinaria e straordinaria dei genitori – Lucrezia lo aveva rilevato quasi a voler evitare le faziose domande che, inevitabili, arrivavano dai suoi conoscenti i giorni preposti al festeggiamento familiare e che la vedevano sempre sola o con i suoi amici più stretti. Sola e felice pensava. Aveva abbozzato qualche teoria per giustificare l’allontanamento da suo fratello e – per essere sinceri – dalla sua famiglia, assestando qua e là, in misura credibile, pertinenti e motivate giustificazioni. In realtà Lucrezia era pacificamente convinta che nessun legame di sangue fosse poi così inossidabile e destinato a durare per partito preso come sentiva raccontare dai suoi conoscenti.
Era fortemente convinta che le relazioni somigliassero ai suoi disegni, ogni giorno ci dovevi dedicare del tempo per aggiungerci un particolare, cancellarne un altro che stava virando verso una interpretazione diversa da quella pensata all’inizio o, a volte, seguire una nuova ispirazione senza farsi troppe domande. La sua famiglia, invece, pretendeva il riconoscimento a piè pari del capitale familiare considerando i legami in esso contenuti non soggetti ad alcuna rivalutazione. Veniva sempre fuori – rideva tra sé Lucrezia – la sua laurea in economia, così fortemente voluta da suo padre, grazie a dio passato a miglior vita, permettendo – a lei soprattutto – di riscattare la giovinezza e le naturali inclinazioni. Si era sottratta dal cassetto in cui sua madre teneva i titoli di stato, sfilando non tanto la sua laurea, quella no, potevano anche tenerla lì a testimonianza dell’impegno profuso a favore di quella figlia così poco riconoscente. Si era portata via la festa per il suo diciottesimo compleanno, organizzata nei minimi dettagli da suo padre: i festoni di carta crespa preparati da sua madre mesi prima; gli inviti imbustati da suo padre dopo aver preteso da lei che vergasse, personalizzandoli – Mr George, se l’era meritato quel nomignolo sgraffignato dalla sua bibbia personale: Una figlia esemplare, di Anna Quindlen – ogni invito a partecipare alla festa di primavera. No. Suo padre doveva fare poesia anche quando si trattava dei fatti della vita, così ordinari e franchi nella loro tollerabile ripetitività. Era il suo compleanno quella che lui definiva – ogni anno – festa di primavera, solo perché era la primogenita di un uomo intelligente e con la vocazione alla poesia. Lei aveva stabilito, dopo la morte del padre, di bandire e – successivamente, a insindacabile giudizio di Giancarlo, Luca e Irene, suoi amici fraterni – di conclamare la festa di Lucrezia e i suoi amici (Lu & G.L.I.). Era un festeggiamento che abbracciava tutti i mesi dell’anno: lei era nata il venti marzo, Giancarlo il due giugno, Luca il dieci agosto e Irene l’otto dicembre. La sua allegra combriccola sbaragliava ogni sortilegio poetico destinandoli al festeggiamento continuo, premeditato e perpetrato da tutt’e quattro. Era la famiglia che aveva coltivato, nemmeno tratteggiandoli sui fogli da lavoro, piuttosto sentendosene parte, uno dei quatto angoli dove quel lenzuolo bianco si agganciava per dare vita alle sue storie. Festeggiarono l’ultima festa di Lu & G.L.I. poco prima dell’ultimo compleanno dell’anno: quello di Irene, il cinque dicembre. Portarono all’ospedale tutti i disegni di Lucrezia, non quelli pubblicati e che l’avevano fatta conoscere e apprezzare come Artista – Mr. George abbi pietà di noi, ci si metteva anche Luca – ma quelli realizzati assieme a loro, le sere in cui giocavano a Risiko taroccato (Lucrezia odiava perdere, motivo per cui si sentiva autorizzata a taroccare le carte degli obiettivi, segnandosele e attuando guerre senza obiettivi, lei sparava e basta perché le pareva il solo modo possibile), quando facevano i pop-corn e per togliere la puzza da casa e dai vestiti dovevano tenere aperte le finestre per tre giorni, quando Lucrezia dava i regali di Natale ad agosto, precisamente il quindici agosto. Perché le era rimasto quell’insensato vezzo di fare festa quando il cuore lo esigeva, anche il giorno della sua morte purché ci fossero lì, con lei, i suoi amici.